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Contemporanei al tempo delle migrazioni (parte 2)

"Chi è arrivato per primo tra le associazioni?" Chiede l'appuntato dei carabinieri mentre esce fuori dal grande cancello dell'hotspot. Apro la portiera e vado incontro all'ufficiale: "Noi!". Mi osserva da capo a piede e continua: " stiamo preparando i ragazzi, resti qui che la facciamo entrare". Faccio lo stesso anche io e la prima cosa che mi salta all'occhio è la sua maglietta della Maui che ho avuto da ragazzo. Per un periodo andavano tanto di moda con lavaggi che alteravano la tinta unica e creavano delle macchie uniche sul tessuto. In queste maglie c'era il disegno di uno squalo umanizzato, il simbolo del marchio, che surfa con fare cattivo. E penso che prima o poi torneranno di moda, qualora abbiano mai finito di esserlo.
Mentre il ricordo delle magliette mi fa venire voglia di acquistarne un paio, mi avvicino al grande cancello mentre i carabinieri lo fanno scivolare verso il lato aprendo uno spiraglio che permette soltanto ad una persona di passare.
Sembra un momento importante che deve essere svolto in modo veloce. L'appuntato mi chiede di seguirlo, così attraverso tutto il grande cortile posto davanti a me. Faccio passerella tra i carabinieri alla mia sinistra. Alcuni di questi stanno dentro delle grandi jeep con i motori accesi a godersi il fresco dell'aria condizionata mentre osservano quello che accade. Altri stanno davanti ai cancelli per gestire le entrate, le uscite e monitorare ciò che avviene nei corridoi ai fianchi del grande deposito centrale. Sempre sulla sinistra, ma più in là, ci sono dei container adibiti ad uffici dove i carabinieri entrano ed escono. Anche lì credo ci sia abbastanza fresco per lavorare in serenità. Sarà che stamane patisco il caldo e non riesco a non notarlo.
Alla mia destra i migranti sono seduti a fare colazione, a stendere i panni appena lavati, a fare videochiamate con i parenti e fare una composta caciara. I più giovani entrano ed escono dal grande magazzino centrale tramite il corridoio posto alle mie spalle sul lato lungo del perimetro. Il fatto che i minori siano così attivi dentro un centro hotspot non mi fa stare sereno visto e considerato che dovrò fare un'ora e mezza di strada con loro. Immagino cose non piacevoli mentre l'ansia si mischia alla mia goffaggine. Così mi proietto in auto durante il viaggio e penso all'ansia del rompere il ghiaccio per creare un clima positivo con l'incertezza di un attestato di inglese non meritato.
Osservo con attenzione il corridoio laterale perché, mentre cammino, immagino che possano scappare a causa della vicinanza tra recinzione e magazzino. Invece è completamente coperto con lastroni metallici tanto da non permettere neanche al sole di passare. Insomma, lì fuori ero l'unico a fare l'acrobata tra sole ed ombra in quel lembo di strada.
Mentre sfilo in passerella e lascio i migranti alla mia destra non posso fare a meno di notare che sembra esserci confidenza visiva tra i carabinieri e gli immigrati tanto da sentirmi l'estraneo del gruppo. Come se avessi interrotto una festa. Così, mentre affronto il red carpet con la leggerezza della goccia di sudore che scivola dalla mia fronte e macchia la maglia che indosso, mantengo postura dritta e, per l'imbarazzo, cerco di evitare di fare capire che li sto osservando tutti. Il tentativo è miseramente fallito perché anche le pietre mi osservano.
Così l'appuntato mi dice di entrare dentro un container- ufficio posto di fronte l'ingresso. Aggiunge che qui faremo le pratiche di affido e che le dovrò fare con l'ufficiale capo che è all'interno. Capisco subito che è la stanza di uno che comanda dall'ombra, dal fresco e dalla serenità che si respira. Così mi siedo ed iniziamo il colloquio per compilare i moduli. Ci guardiamo ed abbiamo tutti e due urgenza di scrivere. Lui al PC ed io di non perdere i dettagli che si stanno depositando nella mia memoria. Stiamo scrivendo entrambi. Lui scrive dentro questo container, in penombra e con in sottofondo il rumore rosa dell'aria condizionata. Al contrario io scrivo all'esterno, camminando, guardando la terra, parlando con le persone, cercando tra i ricordi e mescolando tutto.
Entrambi abbiamo la necessità di spiegare ciò di cui si parla: L'ufficiale capo ricerca l'esattezza del nome, del cognome, della data di nascita assieme alla giusta forma stilistica.
Per me scrivere è sempre nascondere qualcosa.
La scelta della parola è paragonabile allo scavare, così trovata la parola la cosa è nascosta.
Ed ogni volta che si nasconde qualcosa si fa in modo che , in un secondo momento, possa essere scoperta.
In questo senso ogni parola è un gioco di finzioni in quanto nasconde uno scavo. E poi scrivere è un modo per bloccare l'infinita combinatoria delle parole.
L'ufficiale mi chiede il documento di riconoscimento, così mentre lui batte al pc io prendo il portafogli osservando la composizione della stanza. Mi chiede per conto di quale Associazione mi presento e non posso non fargli notare che vengo a nome di un consorzio. Mentre lui ricopia ad alta voce le mie generalità lo osservo in viso e mi pare tutt'altro che del sud Italia. È grande, potrebbe essere mio zio. Ha carnagione chiara e capelli rossi. Il rutilismo svela lentiggini qua e là sul viso. Penso alla sua carenza di melanina e al fatto che viva in questa isola dove il sole e il mare non conoscono il senso del limite del pensiero meridiano.
L'ufficiale mi passa la lista dei minori che accoglieremo mentre dà l'ordine all'appuntato di fare preparare i ragazzi.
È finito il nostro incontro, è arrivato il momento di uscire ed andare. Esco dall'ufficio e mi fermo in quello a fianco. L'appuntato chiama dei colleghi per coordinare le operazioni. Lo segue una donna. Troppi uomini lavorano all'arma dei carabinieri. Auspicavo la delicatezza e la serenità di una donna nel gestire questo momento. Penso poi che delicatezza e serenità sono appannaggio di pochi e non soltanto delle donne. Nell'epoca odierna "delicatezza" non significa femmina, almeno questo dovrebbe essere chiaro. Resta il fatto che a me quella figura femminile mi mette a mio agio.
Il richiamo dell'appuntato interrompe i miei pensieri che oramai mi trapassano da parte a parte: "prendete le auto e mettetevi vicini al cancello. Noi apriremo leggermente il cancello e, lista in mano, chiameremo i minori che dovranno essere trasferiti".
"Eseguo", rispondo.
Oramai ero uno di loro, ero riconosciuto dai migranti come figura importante. Esco, prendo l'auto e la parcheggio come da ordine. Inizia l'appello. Entra il primo in auto, poi il secondo, il terzo e così via. La macchina è piena. Siamo tutti. Mi siedo, attacco la cintura, controllo gli specchietti, accendo la macchina, levo il freno a mano e mi fermo. Sono teso e contento.
Li guardo tramite lo specchietto, poi mi giro di getto.
Li guardo negli occhi, uno ad uno.
Qualcuno sorride, qualcuno abbassa lo sguardo, qualcuno si ammutolisce.
Esclamo salām, portando la mano al petto.
Mi guardano con i loro occhi neri, sorridono e rispondono: salām.
Accendo l'auto e Virgin Radio in sottofondo trasmette Stay (so faraway, so close) degli U2. Si parte.

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